L’Alpago come il Tibet: gli yak muovono l’economia

Franco Pianon ne ha una ventina, ne vorrebbe altri: alcuni li macella, gli altri fanno da “spazzini” e attirano anche turisti

Francesco Dal Mas
Due degli yak che Franco Piano ha a malga Illari, sopra Chies. Foto di Tita Lorenza Fain
Due degli yak che Franco Piano ha a malga Illari, sopra Chies. Foto di Tita Lorenza Fain

ALPAGO. Salami di yak. Franco Pianon si è indaffarato, in questi giorni, a macellare alcuni capi del cosiddetto “bovino tibetano” e a confezionare i pregiati insaccati. «Sono molto gustosi ed apprezzati perché leggeri», fa sapere. Siamo a mala Illari, sopra Chies d’Alpago, dove la neve ancora resiste, grazie soprattutto alle basse temperature. Una ventina gli yak che “pascolano” sulla coltre bianca.

Una specie consolidata

Sono ormai 13 anni che questi animali si trovano nella conca d’Alpago, da quando cioè l’allora ministro dell’agricoltura, Luca Zaia, decise di parcheggiarne alcune decine presso gli allevatori della pecora alpagota. «In questi anni siamo arrivati ad un massimo di 40 capi», racconta Pianon, «ne macelliamo tra i 4 ed i 5 l’anno, perché in qualche modo devono dare un reddito». Pianon sta cercando di aumentare la mandria, inserendo altri capi, ma il mercato è limitato, non ci sarebbero capi a disposizione. «Mi sono rivolto ad allevatori in Germania, spero di recuperare qualche capo per aumentare il gregge». Nei giorni scorsi la fotografa Tita Fain ha intercettato due animali che sembravano aver copiato dai cervi la disfida dell’amore, incornandosi. «Il giovane impavido yak sfidava quello più grande di lui; naturalmente – così voglio sperare – era solo un insegnamento nel gioco. Sono animali molto tenaci, in grado di vivere tranquillamente anche alle temperature rigidissime del Tibet, oltre i 4 mila metri di quota.

Liberi sulla neve

Pianon i suoi yak li lascia liberi, vicino alla malga. Anche se da queste parti c’è sempre il lupo in agguato. «So che nel passato il lupo ha tentato di avvicinarsi, ma quando gli yak si muovono in branco, anche il carnivoro più affamato ha paura, quindi se ne sta lontano». Lo yak non teme i terreni impervi. Ed ecco che si muove tranquillamente anche sulle rampe di queste montagne. «Li lascio al pascolo, rientrano la sera in stalla, oppure perlustrano il bosco, fermandosi fuori anche la notte; ma immancabilmente poi rientrano, anche se è trascorso qualche giorno. Desumo, pertanto», dice Pianon, «che abbiano una loro intelligenza».

Pascoli recuperati

Pianon racconta che, grazie a questi animali, gli allevatori di questa parte dell’Alpago sono riusciti a recuperare diversi pascoli abbandonati. «Puliscono il sottobosco a meraviglia. Si nutrono di piante erbacee (come il falasco, ndr ignorate, invece, da altri animali. Via queste piante, ne ricrescono altre». E, tra l’altro questi animali richiamano anche i turisti, curiosi di vederli al pascolo. «Magari li scambiano per bisonti, ma va bene lo stesso», sorride Pianon. La spesa di gestione non è pesante. Si tratta, soprattutto, di procurarsi del fieno e di portarlo nelle mangiatoie presenti sui pascoli. «Gli esemplari di bovini che avevamo trasferito in Alpago si sono ambientati perfettamente al microclima dell’area. La presenza di questi “spazzini del bosco” sta contribuendo – ha sempre detto il presidente Luca Zaia – ad accrescere la biodiversità della zona e a favorire la salvaguardia dell’ambiente, rendendo ancora più bello un territorio già unico al mondo. La presenza dei piccoli di yak, poi, servirà da ulteriore attrazione turistica». 

Riproduzione riservata © Corriere delle Alpi