La vita cambiata di Paola e Berto mai più tornati a casa dopo quella notte
la vicenda
Sono le 19.15 circa, Paola Paternoster sta preparando la cena. Fuori tira un vento molto forte, come mai dal 1965, da quando cioè lei e il marito Alberto “Berto” Dorigo abitano nell’appartamento in cima al condominio di via 21 Ottobre ad Agordo.
«“Stavolta”, mi ha detto lui», ricorda Paola riferendosi al marito, «“è la volta buona che ci parte il tetto”».
Poi un boato e il tetto è volato via nel buio della notte del 29 ottobre 2018. La notte di Vaia.
La copertura nuova dell’edificio di via 21 Ottobre, definitiva, è arrivata nella primavera scorsa, ma Paola, 78 anni, e Berto, 82, nella loro casa non sono più tornati.
«Fossimo stati più giovani», dicono, «ma adesso, vedersi portar via tutto, cambiare casa, è una cosa proprio brutta».
L’alluvione di due anni fa non ha infatti cambiato soltanto i paesaggi, la concezione del rischio, le priorità dei Comuni. In alcuni casi ha modificato completamente la vita delle persone.
Paola e Berto oggi abitano in un’altra casa in via Villalta ad Agordo, non molto distante dall’abitazione devastata dall’acqua che hanno scelto di mettere in vendita. O forse dovuto. Già, perché dalla finestra apertasi all’improvviso quella sera di due anni fa, di cose ne sono successe.
«Era la finestra del salotto», racconta Paola, «quella che non dava mai problemi, quella che non si bagnava mai quando straventava. Abbiamo preso paura. Poi, una decina di minuti dopo, abbiamo sentito un boato, sembrava fosse il terremoto e, a un certo punto, il tetto è partito e noi siamo rimasti sotto la pioggia, riparati solo da un ombrello».
«Io non capivo più niente», continua Paola, «con il tetto era saltata anche la luce e io non trovavo candele, né fiammiferi, né il gas. Ero fuori di me. Dai piani sottostanti nessuno saliva e allora Berto è sceso per dire ai condomini quello che era accaduto: avevano sentito il boato, ma non pensavano affatto che la casa si fosse scoperchiata. Poi ho chiamato le mie figlie, ma una era alle prese con gli scantinati invasi dall’acqua e l’altra mi ha risposto dopo un bel po’, perché non sentiva il telefono, ed è venuta a prenderci. A casa sua ho passato tutta la notte seduta sul divano».
Al mattino c’è l’ansia di tornare a casa con la speranza di salvare il più possibile. Speranza svanita in fretta.
«Abbiamo tenuto il tavolo, perché coperto da un nylon che mettevo per proteggerlo, quattro sedie e due scatole di legno contenenti alcuni documenti. Basta. Il resto era tutto da buttare, compresi i vestiti che, nonostante i vari lavaggi, continuavano a rimanere macchiati di giallo, il colore dell’acqua scesa dal soffitto».
Per una settimana Paola è rimasta vestita alla stessa maniera. Ma i problemi che si stagliavano all’orizzonte sarebbero stati ben più gravi.
Nei giorni successivi Berto ha salito più volte i quarantacinque gradini per raggiungere l’appartamento e portare via il materiale. Il ginocchio, già segnato dal passato da calciatore amatoriale, ne ha pagato le conseguenze.
«Ha dovuto farsi la protesi», spiega Paola, «poi, quando dopo un lungo periodo si è ripreso, una notte ha iniziato a non respirare. Siamo andati al pronto soccorso ed è rimasto in ospedale per settimane. Dopo Vaia io ho pianto e parlato tanto e mi sono sfogata. Mio marito, invece, ha tenuto tutto dentro e il medico ha detto che i problemi al cuore sono legati a questo». —
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