Il signore degli agnelli
Così Sandro Fullin salva la pecora dell'Alpago e la sua montagna

Fellin con i due cani pastori
VALTURCANA (Tambre). «Da qui a lì casca tutto». Sandro Fullin, in tenuta da lavoro in piedi precario su una croda, indica laggiù il «rio de la val». I versanti sono una sola grande frana, o forse un insieme di frane, con la pancia aperta, appena coperta dalla peluria di una boscaglia che a primavera cresce in fretta. Sono ancora le ferite dell’alluvione del ’66, ma da allora la situazione non è cambiata: «Ogni anno centinaia di metri cubi scivolano verso Puos. Salvo devastazioni ogni 15-20 anni. Piove un po’, e arrivano giù fette di montagna». L’ultima volta nel giugno dell’anno scorso. Si sono spostate di tre metri perfino le strade.
Se vuoi capire cosa succede nella montagna bellunese devi venire quassù, e attento a non scivolare. Si dice che se ti cade un uovo a Plois devi rincorrerlo fino a Farra. L’Alpago è tutto verticale, con un indice di pendenza da record. Altro che «Conca», come chiamano il territorio dei Cinque comuni. Sarà conca in fondo, verso il lago di Santa Croce, dove alla fine arriva tutto. Fullin ha lasciato Wolf e Fulmine in macchina, e con lui ci avventuriamo sull’orlo del costone che frana. Lì sopra, sull’altro versante della valle, Tambre di notte dorme sonni tranquilli, anche se è appena dietro il baratro dominato da un gruppo di abeti. Ma qui i versanti non tengono. E’ una fascia che va dai 900 ai 400 metri di altitudine, da Tambre fino alla piana alluvionale del lago. E dal Fadalto al Dolada.
L’antico mare. «Qui era mare aperto e poco profondo», spiega Fullin, «che ha depositato un bancone di 500 metri di argille, marne e arenarie. Tutto questo versante scivola pian piano verso Puos». La grande zolla sopra cui c’è Tambre spinge in basso, e la pressione ha ormai ribaltato qualcuna delle briglie costruite negli anni ’60. Edoardo Semenza, il geologo che scoprì la paleofrana del Vajont, diceva che ci sono solo due rimedi: alleggerire i versanti e far sì che l’acqua se ne corra via più veloce possibile. Dunque: disboscare, togliere il peso dei grandi alberi e la boscaglia che ha invaso i pascoli abbandonati. E una rete adeguata di canali ben tenuti. Solo in Valturcana di canali ce ne sono per dodici chilometri.
Sandro Fullin fa l’allevatore di pecore. Pecore alpagote, del tutto diverse dalle altre. L’agnello dell’Alpago è diventato un presidio Slow Food e da allora ha un discreto mercato. Cosa c’entrano le pecore con le frane? Se non ci fossero loro, i pascoli verrebbero abbandonati, il bosco resterebbe padrone incontrastato. Il dissesto del territorio ha un nome: abbandono. Il rimedio, o almeno uno dei rimedi più importanti, ne ha un altro: ritorno.
Rientro da Bologna. Sandro Fullin è ritornato. Lui è di Tambre. Da ragazzo voleva fare il pastore di anime, ma dopo otto anni di seminario passò al liceo statale Tiziano, e mamma Sara la sartora (papà Celeste faceva il falegname) diede le dimissioni da presidente dell’azione cattolica. E’ finito a Bologna a fare Agraria e il servizio d’ordine del Pci. Poi la morte dello studente Lorusso, ed è cambiato tutto. Se ne andò da Bologna, diventata un campo di battaglia, e finì ad Arco di Trento a raggiungere la moglie Adriana, fisioterapista. Poi una lunga e accidentata navigazione nel mondo delle cooperative agricole. Sette anni fa ha messo su una sua azienda e si è radicato quassù in Valturcana con 250 pecore e due cani.
Dura? Altroché. In sette anni ha messo giù 35 chilometri di recinzioni. Palo su palo. Con le sue mani e quelle di qualcuno che l’ha aiutato. Gli è venuta la tendinite a forza di dar mazzate. Legno altrettanto duro, ìgol (maggiociondolo), castagno e cassia (acacia). Sessanta ettari in affitto da 163 proprietari. Ha recuperato le vecchie stalle ai Mecèi e ai Bastiani. Le pecore le ha divise in otto gruppi, e ogni gruppo ha dieci lotti recintati. Qui stanno al pascolo fino a novembre. Certificazione biologica Icea. Con le altre aziende della Fardima (in Alpago oggi le pecore sono 1800) la sua «Valturcana» è legata al marchio «Agnello dell’Alpago». Che così è resuscitato da estinzione certa. Come è successo a Lamon dove la pecora autoctona è sparita. Lì nel ’48 c’erano 45 mila pecore, sono ridotte a un paio di esemplari custoditi nel Centro sperimentale di Villiago da dove si tenta di far ripartire la razza. A Lamon è sparita perché sostituita dalla bergamasca e dalla biellese, che danno più carne. Come dire: la rincorsa al reddito sempre più alto ha distrutto le basi dell’allevamento.
L’editto di Berengario. Ridotta a 5000 esemplari nel 1948, la pecora dell’Alpago ha in realtà fortuna più antica: l’editto di Berengario. Siamo adunque nel 923 dopo Cristo, e l’Alpago viene assegnato alla Mensa Vescovile di Belluno. Spiega Fullin: «Vuol dire che fu sancito il divieto di importare ed esportare animali e foraggi». Poi arrivò la Serenissima, ha capito che era una ricchezza, e non ha cambiato niente. E’ così che si salvò la razza autoctona. In Valturcana arrivarono, come dice il nome, i turchi. Diremmo oggi prigionieri di guerra, fatti lavorare dai veneziani. Così la pecora alpagota è il prodotto di un equilibrio costruito nei secoli. Razza autoctona, acclimatata a questo ambiente, vissuta in Alpago in totale isolamento. Più resistente alle malattie. Buona per questo tipo di pascoli. Velo bianco, maculatura sul muso e sulle zampe, più abbondante dalle ginocchia in giù.
Sandro Fullin è uno di quei montanari che ci credono. Nella possibilità di vivere in montagna, s’intende. Senza ecologismi da strapazzo: «Una nuova ecologia, quello sì. Che mette insieme scienza e memoria. Senza conoscere la storia di questi posti e di questi pascoli, non vai da nessuna parte». Adesso lo invitano anche ai convegni internazionali sui progetti di valorizzazione territoriale. L’8 maggio sarà a Ca’ Foscari. Perché il progetto di cui è animatore può essere di esempio per tutto l’arco alpino dove l’agricoltura è abbandonata. La Fardima. E’ un progetto che parte nel 2000, in una riunione tra Comunità montana, Slow Food e allevatori. Sandro Fullin si impegna a mettere in piedi una sua azienda, segue la creazione di un marchio legato a Slow Food. Nasce il «presidio». E su questa base si inizia a lavorare a un disciplinare di produzione. La carne è passata da 14 mila lire al chilo a 20 mila, che adesso fanno 10 euro: «Il mercato, grazie a Slow Food, ha risposto bene, la qualità c’è». Il progetto mette insieme 15 soci produttori, la Comunità montana e i cinque comuni. Per il marchio nasce l’associazione Fardima. Si chiamava così l’inserimento degli arieti dopo la tosatura. Adesso si usa un’altra tecnica: gli arieti sono sempre nel gregge. C’è il pro e il contro. Si hanno agnelli tutto l’anno, ma si rischia di sfibrare le pecore. Per questo servono alimentazione abbondante e sana d’inverno e pascolo libero e turnato d’estate: «Far star bene gli animali, allora rendono».
Progetto lana. Si tosa a primavera, prima del pascolo estivo. Tre chili di lana a pecora, un totale di 55-60 quintali. Fino a due anni fa la lana veniva buttata via: smaltita come rifiuto speciale al costo di 4 euro al quintale. Adesso sta per partire un altro progetto ambizioso, grazie alla Comunità montana: pantofole, giubbetti, cappellini, guanti, calze, sciarpe da vendere in agriturismi e alberghi. Prendendo due piccioni con una fava: realizzare un guadagno e promuovere il marchio della pecora dell’Alpago, con un ritorno turistico per la zona. Una centrale a biomasse? Con Sandro Fullin facciamo il giro per sotto, sulla strada che s’è costruito per i boschi. Fino a Teno, e poi su sempre in Valturcana. Una volta erano piccole frazioni vive, ai Mecèi Sara la sartora faceva perfino lezione di teatro. Adesso i proprietari vengono a far legna e le tasse. «Qui c’è bosco da tagliare per far andare una centrale a biomasse e dare energia a un paese per trent’anni», dice Fullin. Guardi su, e vedi la terra con la pancia all’aria. Il colpo di grazia l’ha dato l’alluvione del ’66, l’anno dopo è arrivato l’ordine di evacuazione per la Valturcana. Tutto abbandonato, l’acqua non più regimentata la fa da padrona. Ci sono case vuote con lunghe crepe come cicatrici. Il territorio, se non viene curato come si deve, potrebbe franare su Teno e formare un tappo sul torrente. Con quali conseguenze su Cornei è facile immaginare. Anzi no, non lo immagini se non vieni qui.
Per questo Sandro Fullin, prima che tra le sue pecore, ci ha portati sull’orlo di quella valle. Solo lì si capisce davvero il senso della scommessa: «Il progetto è di tener pulita gran parte della Valturcana, quella non ancora invasa dal bosco». Curare il territorio, impedire che il bosco e l’acqua prendano il sopravvento, e che alla fine frani. Chi resiste in montagna. In questo ambiente difficile parlare di sviluppo sostenibile acquista un senso molto concreto. C’è chi ha resistito nonostante tutto mentre la montagna si spopolava, chi ha presidiato il territorio, chi è ritornato con energie nuove. E con sogni per questa terra. Come Sandro Fullin che vorrebbe poter trasformare Mecèi in un polo agrituristico naturale. L’importante per i sogni è crederci: perchè solo così si avverano.
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