Il grande cuore del Cadore in aiuto a 200 profughi

PIEVE DI CADORE. «Devo ammettere che il problema dei profughi di Pieve di Cadore è stato colpevolmente sottovalutato anche da me che allora ero sindaco di Calalzo», ha esordito così Piermario Fop, il coordinatore del convegno nato per ricordare la tragedia vissuta dai popoli della ex Jugoslavia, 20 anni dopo.
«Solamente dopo un viaggio a Srebrenica mi sono reso conto della gravità dei fatti successi allora e del grande encomiabile lavoro dei cadorini, per accogliere degnamente quelle persone fuggite da una realtà tragica che ne ha visti morire a migliaia».
A Pieve di Cadore sono state ospitate oltre 200 persone, delle quali solo una piccola parte è ritornata nel proprio paese di origine. Oltre 100 sono rimaste in Cadore ed oggi alcuni di loro sono diventati cittadini italiani. Il Centro rimase aperto fino al giugno del 1996, dopo il trattato di Dayton, consentendo agli studenti di concludere l’anno scolastico. Il Cadore in questa occasione ha scritto una bella pagina di storia e di fratellanza.
I gravi fatti successi con le guerre balcaniche degli anni ’90 non sono stati sottovalutati dai responsabili delle organizzazioni di assistenza cadorine che li hanno seguiti per 6 anni. In molti casi quel sentimento di ospitalità e di condivisione dei loro problemi, continua ancora adesso. Lo si è notato per la dolcezza dei rapporti che la professoressa Donatella Ruffato Sonaggere ha dimostrato di intrattenere – ricambiata – ancora oggi con quegli ex rifugiati che erano presenti ieri in sala. Il suo intervento durante il convegno organizzato dall’Associazione “El Ceston” e dal Tamiso di Padova, tenuto ieri nella Magnifica Comunità, è stato esemplare per la chiarezza del racconto ed anche per la non enfatizzazione di quanto è stato fatto da Pieve e dalle organizzazioni pubbliche e private durante quel periodo.
«Premetto, ha affermato iniziando il suo racconto Donatella Ruffato, che siamo stati in molti a lavorare per assisterli. Io sono solo la persona che oggi parla, una testimone. Avevamo saputo già nella primavera del 1992, che sarebbe sorto un campo profughi nella Caserma Buffa di Pieve, perché il perdurare della guerra in Bosnia aveva creato molti profughi: la situazione era pericolosa e in Croazia ce n’erano già troppi. Nel luglio del 1992 sono stata chiamata in quanto rappresentante della Caritas per assistere i profughi in arrivo. Il primo gruppo era formato da 33 minori, donne, mamme, persone anziane. Provenivano dai paesi della Bosnia al confine con la Croazia. Alcune signore che sono qui presenti facevano parte di quel gruppo».
All’inizio c’era una grande confusione perché erano in campo la Prefettura, il Comune di Pieve, la Croce Rossa, ma mancava un interprete. «Il Comitato comunale prese allora una persona che prestava come poteva la sua opera. Ma è stata dura, finchè gli ospiti non hanno imparato un po’ d’italiano con il quale dialogare con i volontari. Ai volontari di Pieve la Croce Rossa ha affidato il compito dell’assistenza, compresa la distribuzione dei vestiti. Questo incarico ci ha consentito di avere dei contatti personali con i profughi e raccogliere le loro storie. La situazione lentamente è migliorata e in autunno i bambini sono stati iscritti alle scuole elementari e alle medie, assistiti da maestre in pensione. Non c’erano ragazzi superiori ai 12 anni perché erano stati trattenuti in Bosnia».
«A Pieve c’è stato un vero tam-tam per chiedere e ottenere aiuti dai privati: si organizzavano concerti, manifestazioni, si chiese l’aiuto delle Parrocchie. Arrivò un aiuto anche dalla Parrocchia di Burano. Ricordo, aggiunge commossa, che degli ex Alpini che avevano prestato servizio nella Caserma Buffa, si sono messi a disposizione per portare aiuti. Poi ci sono state anche delle cose non belle: si era sparsa una voce non vera, che i profughi avrebbero ricevuto 750.000 lire al mese come contributo. Da qui era nata una cartolina con la scritta “voglio essere profugo anch’io” per ottenere un sussidio che era però inesistente. Nel frattempo il Ministero aveva autorizzato alcune persone a uscire dal Centro e a trovarsi lavoro. Gli uomini iniziarono a lavorare e di conseguenza con le loro famiglie cercarono e trovarono -cosa non facile- anche una casa. Alcuni profughi rientrarono, ma ne arrivarono di nuovi, prima nel 1994 e poi, quando già si parlava della chiusura del Centro, nel 1995, quando arrivano i profughi di Srebrenica».
Una odissea, quella dei profughi della ex Yugoslavia che ha coinvolto direttamente tutto il Belluno, a partire dai primi anni 90 quando arrivarono i profughi della Croazia, discendenti dei bellunesi emigrati cento anni prima, poi con quelli della Bosnia.
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