I social network sono la croce e delizia delle Dolomiti: «Tutto diventa sfida»

Sono capaci di instillare in migliaia di persone la curiosità, la passione, l’amore per la montagna. Ma, allo stesso tempo, i social network rischiano di fornirne una versione edulcorata, priva dei rischi che la caratterizzano: nessuno, o quasi, posta su Facebook la foto di quella volta che ha dovuto rinunciare all’escursione perché troppo difficile o perché il meteo non ha aiutato. «Invogliare i turisti a venire in montagna è un bene ma bisogna anche istruirli» spiega Davide Alberti, presidente delle guide alpine del Veneto. Professionista dal 1996, in oltre vent’anni ha visto cambiare radicalmente l’approccio alle cime.
Ogni estate le montagne sono prese d’assalto: come si è trasformato il turismo in quota?
«Stiamo vivendo gli anni dell’outdoor. Ora vanno per la maggiore il trekking, le alte vie, le mountain bike. C’è ancora chi va in ferrata ma oggi il grosso del mercato sta nel trekking: è alla portata di tutti, non ha difficoltà tecniche e basta un’attrezzatura minima, che si trova anche a poco prezzo. Mentre nelle ferrate questo ha portato ad un miglioramento nelle attrezzature - una volta i turisti si presentavano con un cordino legato alla pancia, oggi tutti hanno imbragatura, dissipatore e casco - nel trekking questo non sempre si accompagna ad un’adeguata preparazione».
In questa trasformazione che ruolo hanno i social network?
«Una volta i sentieri impervi o le gite meno conosciute erano appannaggio dei locali. Ora, con internet e i social network, tutti hanno a disposizione queste conoscenze».
Insomma, i social network stanno diventando i vostri diretti concorrenti.
«Non proprio, perché passano una notizia sbagliata. Tutto viene descritto in modo bello, positivo, e tra utenti scatta la sfida a chi va a vedere quel luogo. Ma non si fanno i conti con i pericoli della montagna: il meteo è un fattore fondamentale capace di cambiare volto ad un’escursione. Anche la preparazione fisica viene presa sottogamba. Magari si scelgono escursioni di ore ed ore senza cognizione di quello a cui vanno incontro. E alla fine ci si trova nei pasticci».
Anche gli impianti di risalita hanno contribuito a questo cambio di percezione?
«Non direi, anzi. Proprio grazie agli impianti aperti in estate c’è un’importante quota di mercato, tanto ormai rimangono aperti anche rifugi che tradizionalmente lavoravano solo d’inverno. Senza contare che la possibilità di portare in quota le bici porta nuova linfa al settore: i bike park stanno funzionando benissimo. La causa di questo fenomeno è che le persone non hanno avuto le adeguate informazioni».
E chi dovrebbe dargliele? Gli uffici turistici? Gli albergatori?
«Credo che sia una strada difficile, visto che non è mai facile mettersi d’accordo e trovare l’adesione di tutti. Secondo me bisogna iniziare a lavorare già dalle scuole, in modo che i ragazzi crescano con queste nozioni. È una questione di mentalità: ci sono persone che si informano, che arrivano preparatissime. Altre no. Bisogna lavorare su questo aspetto».
Quando si parla di montagna e social network, impossibile non pensare al lago di Sorapis e al caos del turismo cafone.
«È l’esempio classico: fino a qualche anno fa nessuno sapeva della sua esistenza, ora sembra di stare in spiaggia a Jesolo. Tutto grazie ai social che l’hanno pubblicizzato. Pare che tutti debbano andare lì ma quel percorso è difficile: ho visto persone slegate, con bambini piccoli, con borsetta e tacchi. Per non parlare di chi si fa il bagno o lascia i rifiuti. Invogliare le persone a frequentare la montagna è un bene perché queste zone vivono di turismo ma ci vorrebbero dei controlli, magari dei divieti. O un accesso a fasce orarie: altrimenti di quella ed altre perle non resterà molto». —
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