Grigoletto: «Quella rapina che cambiò la mia vita...»

Nel 1979 due banditi entrarono armi in pugno, fu colpito con il calcio della pistola. «Pasa rimase sconvolto e mi lasciò la gioielleria. Volevo diventare ferroviere»

LENTIAI

Quella di Flavio Grigoletto nel commercio è una storia iniziata tanto tempo fa e che prosegue tutt’ora. Fa l’orefice da 63 anni, molti dei quali trascorsi nella sua amata Lentiai, dove gestisce la Gioielleria Pasa con la moglie Rosanna, i figli Andrea e Michele, il fratello Franco e nipoti, e alcuni dipendenti. Seduto nel suo laboratorio, Flavio ci racconta la sua esperienza.

Partiamo dall’infanzia: signor Grigoletto, ci parli dei suoi primi passi nel mondo del lavoro...

«Ricordo ancora la strada di pietre e polvere, la chiesa in fondo alla via e noi bambini, inseguire i nostri sogni nell’ebbrezza di un futuro da modellare. Erano gli anni in cui Lentiai doveva essere ricostruita dalla macerie del dopoguerra. Io sono nato e cresciuto qui, in questo contesto. Ho visto la mia terra cambiare nel tempo. All’epoca non c’era lavoro, non c’era nulla. I miei genitori lavoravano in Svizzera: mio papà come muratore, mia mamma faceva pulizie nelle case. Li vedevo una volta l’anno, a Natale. Mio fratello e io vivevamo qui con alcuni parenti, un periodo con l’uno, poi con l’altro, di casa in casa. Non c’era la possibilità di studiare, perché costava troppo e non potevamo permettercelo: così, una volta terminata la quinta elementare, iniziai a lavorare come apprendista nella piccola oreficeria del paese, che all’epoca era situata in un edificio in piazza Crivellaro, vicino all’ex cinema. Fu lì che conobbi la famiglia Pasa: il padre Piero, orologiaio e direttore della vecchia banca di Lentiai, e il figlio, Ugo, al quale devo tanto».

Le ha insegnato il mestiere...

«Si. Era il 1956: non sapevo nemmeno che esistesse questo tipo di lavoro: volevo guadagnare qualche soldo per realizzare il mio sogno di divenire macchinista di treni e invece, a distanza di sessant’anni, sono ancora qui. Appresi l’arte dell’incidere e del traforare, vendendo anche qualche collana e via dicendo. Ricordo che un grammo di oro puro costava 500 lire: con un 1 kg potevi comprarti una Fiat Cinquecento. La prima paga la presi dopo sette anni, mille lire a settimana. Non era affatto facile andare avanti con pochi soldi. Mi licenziai, ma Pasa mi convinse a proseguire. Nel frattempo l’oreficeria era stata spostata nella sede attuale, anche se era più piccola».

Poi il ritorno dei suoi genitori..

«Avevo vent’anni quando tornarono per rimanere: con i soldi guadagnati aprirono una trattoria a Lentiai, nel 1963, “Il Gongolo”, dove lavorai con mio fratello, proseguendo anche l’attività di orafo. Per un pranzo di nozze percepivamo 800 lire. Nella vita non c’è nulla di perfetto: ci vuole impegno e soprattutto tanti sacrifici».

Cosa le ha trasmesso questo lavoro?

«La passione: io non dico che vado a lavorare, ma a divertirmi. Quello dell’orafo è un mestiere che si impara da soli, un po’ alla volta, provando, sbagliando e riprovando ancora. È però dalla vita che si apprendono le cose più importanti: ho avuto dei momenti difficili, ma non ho mai voluto far pesare agli altri il mio dolore, perché ognuno ha i suoi. La vita per me è una stronzata, dove vinci e perdi. Il resto è fortuna e con me la dea bendata è stata determinante».

Ci spieghi il motivo.

«La fortuna ha fatto sì che conoscessi quella ragazza stupenda che poi sposai a 25 anni. Lavoravo a Lentiai, ma per oltre vent’anni mi trasferii a Mugnai, prima di fare ritorno».

C’è un episodio che ha cambiato la sua vita?

«Era il 1979. Un giorno, all’improvviso, un bandito entrò nel negozio ed estrasse una pistola. “Silenzio!”, intimò con l’arma in pugno, “questa è una rapina”. Ricordo come fosse ora che si avvicinò a Pasa: lo prese con forza trascinandolo per il braccio e gli ordinò di aprire la cassaforte. Erano momenti di panico, sembrava non finissero più. Il titolare la aprì e diede soldi e gioielli al rapinatore, che era insieme a un complice. L’altro osservava ciò che accadeva in sala, poi si avvicinò e mi puntò la pistola addosso. Cercai di mantenere la calma, lui però non fece altrettanto. Non mi sparò: girò la pistola e con il calcio mi diede una botta in testa, che mi costò dei punti di sutura. Ricordo la fuga dei due. Poi persi conoscenza. Uno di loro venne preso e morì dopo una sparatoria in Spagna; dell’altro invece non si seppe più nulla. Pasa decise di abbandonare l’attività e io ereditai tutto». —
 

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