Ferroli, rassegnazione tra i dipendenti

ALANO DI PIAVE. Escono a gruppi di due o tre, il capo ciondolante, le spalle ricurve e lo sguardo perso in un orizzonte che non c'è. Non più.
L'assemblea sindacale di ieri mattina ha confermato i sospetti del giorno prima: durante la presentazione del Piano industriale di Ferroli, l'amministratore delegato Maurizio Prete ha annunciato di voler restringere il perimetro d'azione italiano dell'azienda termomeccanica ai soli stabilimenti di Verona (San Bonifacio) e Siena (Casole d'Elsa). Fonderie, logistica e produzione extra verranno chiusi, nessuno escluso.
In tutto si tratta 600 esuberi, compresi i 130 di Alano. Se non sarà venduto entro la fine dell'anno, lo stabilimento di Colmirano verrà dismesso.
«I macchinari sono fermi da un anno e mezzo, a parte qualche piccolo lavoro di manutenzione», sottolinea il sardo Antonio Garau, Rsu Fiom Cgil e uno dei pochi dipendenti da fuori provincia, «se non saranno rimessi presto in moto non saranno più utilizzabili. Sono mesi che qui dentro gira soltanto il custode. L'amministratore delegato l'ha detto chiaramente: noi siamo fuori dal perimetro e queste mura vanno monetizzate», indicando la fabbrica alle sue spalle, «abbiamo capito che non vogliono più produrre, ma commercializzare le lavorazioni di altri. La nostra ultima speranza quindi è che arrivi qualcuno che faccia ripartire la produzione da qui: a noi non interessa lavorare per Ferroli, a noi basta lavorare».
Negli occhi degli operai serpeggia la rassegnazione più totale. Molti evitano di incrociarli con i tuoi, schivano le domande, si allontanano bruscamente. Non è facile ammettere di essere in cassa integrazione a zero ore da un anno, di non sapere come pagare affitto, spesa e bollette, né come arrivare serenamente alla fine del mese.
«Ma dove vai a lavorare qui in giro, a quest'età?», sbotta uno che è dipendente da 20 anni, sulla quarantina e dal marcato accento veneziano, «piuttosto che trovare un lavoro precario di due mesi resto in cassa a 1100 euro. Fino a settembre almeno, poi mi aspetto la mobilità. Questo sito ormai è morto».
«Non è vero che il settore è in crisi», gli fa eco un collega, «qui facevo il magazziniere e avevamo ordini fino a tutto il 2016. Non ci sono mai state date risposte chiare sul nostro destino, sappiamo solo che resteremo senza lavoro per colpa di debiti milionari che non abbiamo causato noi. Qui c'era aperta campagna, poi con i fondi del Vajont è comparso il complesso industriale. Ma ora che stanno per lasciarci a casa, spero almeno che si degnino di bonificare l'area».
Un altro operaio, 54 anni, si dice «ancora speranzoso», anche perché forse non gli rimane altro a cui appigliarsi.
Vive a Fonzaso con la moglie e due figli e per 25 anni si è fatto 60 chilometri al giorno, e «volentieri, per venire al lavoro. Oggi vedo nero al 75 per cento, vivendo ancora con la speranza che arrivi qualche compratore a rilanciare la fabbrica. Anche perché sono troppo vecchio per trovare un altro lavoro e mi mancano ancora 7 anni per la pensione».
Nello stabilimento sono tutti sulla cinquantina, chi più chi meno, e la maggior parte vivono ad Alano (oltre 40), Quero (30), Feltre (20) e Fonzaso (12). C'è anche qualche lamonese, due senegalesi e quattro trevigiani.
Da un anno a questa parte se ne sono andati in una decina, tra dimissioni spontanee e prepensionamenti. Negli ultimi tre anni le defezioni sono state 90, quando l'aria di crisi tempestava ancora in lontananza. «Io sono prossimo alla pensione», ammette Alessandro Toigo, 63 anni di Fonzaso e operaio dal '78, «ma sono molto preoccupato per il futuro di questi ragazzi».
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