Fagherazzi, il biologico è una vocazione di famiglia

SEDICO
Ci sono aziende agricole biologiche per natura e vocazione, che sono sempre state gestite secondo un approccio sano e rispettoso verso la terra e i suoi frutti. È il caso di Luciano Fagherazzi, dell’omonima azienda di Sedico, diplomato perito agrario nel 1981, ma da sempre a contatto stretto con l’agricoltura e l’allevamento: è infatti figlio di genitori che praticano questo mestiere da decenni. L’azienda, partita a inizio Novecento da Baldenich e San Fermo a Belluno, è approdata a Sedico, proprio là dove oggi vive e lavora.
Nato a Feltre nel 1962, Fagherazzi aveva tentato la strada dell’Itis indirizzo metalmeccanico, abbandonata poi per doveri parentali. «Ho terminato gli studi all’istituto agrario di Conegliano, perché all’epoca non esisteva ancora la scuola di Vellai», racconta l’imprenditore con tenerezza, «è stata dura stare lontano di casa a quell’età».
Con chi condivide il lavoro?
«Con mia cognata Barbara e mio fratello Stefano. Facciamo parte del circuito delle Piccole produzioni locali (Ppl) e la dimensione della nostra azienda ci consente di operare con tranquillità e fare il giro delle spese, anche se i costi di gestione sono sempre più gravosi. Anche l’insacchettamento e l’etichettatura sono costi non indifferenti su cui fare attenzione, visto che vendiamo alcuni dei nostri prodotti, come le farine, direttamente agli agriturismi o nei negozi. C’è tanta concorrenza anche da fuori provincia, soprattutto di giovani che decidono di partire subito con il biologico perché ormai sentiamo il bisogno di mangiare sano e genuino e possibilmente da filiera il più possibile garantita e controllata».
Da quanto tempo avete la certificazione biologica?
«Da 12 anni ormai, anche se da sempre facciamo coltivazioni senza trattamenti, perché io e la mia famiglia ci crediamo profondamente, avendo a cuore la cura per l’ambiente. Abbiamo macchine che ci permettono di fare un certo tipo di lavorazioni, come la rincalzatura del mais. Ora ci siamo perfezionati con altri strumenti, come il sarchiatore a due file, per gestire il più da vicino possibile tutte le coltivazioni».
Cosa è cambiato con la certificazione?
«Ci sono obblighi da rispettare come le rotazioni, che ora impongono un anno a leguminosa ogni tre. Così, a inizio marzo adottiamo l’antica tecnica della bulatura, ovvero la semina di una leguminosa foraggera o di trifoglio o di erba medica in mezzo a orzo e frumento, che piantiamo in autunno, così, una volta tagliato nel mese di giugno, le piantine possono crescere e essere segate anche due volte prima del sovescio, che serve ad arricchire il terreno.Fare cose come questa è fondamentale, perché garantisce la mineralizzazione dell’azoto prodotto dalle leguminose sovesciate, apporto fondamentale per la coltivazione successiva senza ricorrere a prodotti di sintesi».
Secondo lei è una certificazione per pochi?
«Assolutamente no, anzi! Potrebbero farlo più persone e anche più in grande, diciamo a livello quasi industriale, bastano la volontà e anche un po’ di impegno, perché è gravoso stare dietro alle piante, lo dico in generale. Quando si fanno le sarchiature o tutte le altre operazioni colturali, bisogna stare attenti a farle nel momento giusto, assecondando i ritmi delle singole varietà. Per esempio, quest’anno per colpa della crisi climatica abbiamo dovuto seminare il mais a fine maggio invece che a fine aprile, con la conseguenza che in autunno, quando ha piovuto a dirotto, ha faticato a maturare e abbiamo dovuto essiccare le pannocchie in modo più rapido. Dovremo adeguarci sempre più e non sarà semplice per tutti».
Come ha conosciuto il progetto DDolomiti?
«Sono stato contattato da Paola Paganin qualche mese fa. La mia azienda fa parte da tempo di “Dolomiti bio”, l’associazione di cui sono consigliere che va sempre più avanti e aumenta anche il proprio giro di soci, segno che stiamo lavorando bene. Ho deciso di aderire a questo nuovo progetto perché l’ho trovato uno strumento utile per dare ulteriore visibilità alla mia azienda, oltre che perché credo nei valori che propongono. Per 26 anni ho fatto parte di un sindacato di categoria, quindi anche io mi sono battuto per proteggere questi principi, anche se oggi questa vocazione battagliera si è un po’ persa.
Perché si sente custode del territorio?
«Perché oltre a coltivare senza l’uso di fitofarmaci o additivi chimici ,mi occupo della bonifica dei terreni e delle aree circostanti, pulendo le capezzane che altrimenti farebbero passare gli animali selvatici attraverso i nostri campi. Tutti dovremmo fare la nostra parte, anche nel nostro piccolo. —
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