Chiesura, l'anima nel sax

«Ai miei funerali voglio un gospel»
Attenti a quei due, stanno preparando qualcosa che lascerà il segno. Impossibile farsi dire di più, ma almeno si capisce che è qualcosa a metà tra la musica e la montagna. Che si tratti di musica è ovvio, visto che i due sono Lino Brotto, chitarrista super, e Pasquale Chiesura, che è tutt’uno con il suo sax tenore. L’altra sera erano da Gianni Bonesso, all’agriturismo Col de Venz a Mel, per una serata di jazz, fiato e dita. Tra un brano e l’altro, naturale parlare dei loro progetti. Che faranno storia. Anche perché è sempre più raro trovare locali che rischiano, capitani coraggiosi disposti a scommettere su un genere non così facile, preferiscono tutti andare sul sicuro, la solita musica leggera che «tira» di più e garantisce più incassi. Ma il coraggio, come diceva don Abbondio, o uno ce l’ha o non se lo può dare. L’animo di don Chisciotte che si batteva col mondo per un ideale di giustizia e libertà per fortuna però resiste, magari sottotraccia, e talvolta riemerge in superficie.


 Chiesura lo si potrebbe definire genio e sregolatezza, di certo è uno estroso. Che diamine, mica farebbe jazz, sennò. Partito da Chies, nella sua vita non sempre facile è finito a Torino, Umbria, Milano. Erano anni in cui uno poteva prendersi il lusso di mettersi in gioco pur di assecondare le passioni, e cercare la sua strada. Quali anni? Il sessantotto era passato però l’eco c’era ancora, e gli anni erano quelli, i Settanta, prima della gelata. Lui adesso di anni ne ha 50 ed è ritornato tra le sue montagne, dopo una vita spericolata come cantava Vasco Rossi. Ritornato anche per nostalgia delle sue montagne. Ma di strada ne ha fatta parecchia, come musicista. Per via incontra firme che lasciano il segno, come Claudio Fasoli (corsi a Umbria Jazz), Pietro Tonolo (studi a Milano), Lillian Terry (scuola a Bassano). E ancora Larry Nocella e Luigi Bonafede, Tony Scott e Emanuele Cisi. Ci suona insieme, anche nelle jam session del Capolinea.


 La musica ce l’ha nel sangue, si può dire che è figlio d’arte. Papà Domenico suonava chitarra, contrabbasso e batteria, oltre a fare il barbiere e l’imbianchino. La passione per le montagne l’ha presa forte da mamma Maria, che di cognome faceva Zanon, che lo portava in pancia quando andava su per le montagne. «Eravamo una famiglia povera di un paese misero», riassume. «Col cesso, il gabiòt all’esterno. E si andava a opera».


 Nasce nel 1956, in gennaio, e di quei primi anni di vita in Alpago ricorda, nei suoi flash back, i pupazzetti di legno che uno spilungone di Cimolais, o forse di Zoldo, portava a vendere a Chies a piedi con la gerla e che dormiva nelle stalle. E la bottega dei genitori, dove papà aggiustava ombrelli e faceva zoccoli, si vendeva di tutto, dalla terraglia ai giornali (il Gazzettino, la Domenica del Corriere, il Corriere dei piccoli). E ricorda il maestro di musica Angelo Chiesura, autore dell’Inno dei Cinque comuni, che resiste ancora scolpito anche nella tomba. Parole e musica: «Dal Pian Cansiglio/ al monte Dolada/ per ogni contrada/ un canto si onori/ di gloria nei cuori» e avanti così.


 Fu educazione sentimentale, non solo musicale, quella del Maestro Chiesura. Tanto che lui, il piccolo Pasquale, a quattro anni, diconsi quattro, si metteva davanti agli scalini delle case con l’armonica a bocca accompagnandosi con la fisarmonica per i bassi. A cinque anni suonava l’ottavino. Finisce in foto sul Gazzettino come enfant prodige. E finisce nella banda, a suonare di tutto, e a sfilare con papà che suonava il tamburello: «Era orgoglioso di me».


 La banda, va da sè, va a suonare anche ai funerali. «Barba Angelin mi rimproverava: non riuscivo a suonare perché piangevo a dirotto». Piangeva con Mahalia Jackson. «Non stavo neanche in piedi da quanto piangevo. Poi suono anche il Calypso, ma quelle musiche non le sento tristi. Lo spiritual mi piace perché mi fa sentire totale. Ho voglia di vivere e scherzare, ho sempre più amore per la vita. Anche se talvolta mi prende la malinconia».


 Pasquale arriva fino alla terza media. Per due anni fa la prima ragioneria e molla lì. Bocciato fin dalle elementari. Un asino? «No, un sensibile. Le maestre ce l’avevano con me». Papà Domenico si ammala e muore. La mamma lo segue dopo 4-5 anni, che avevano appena finito di tirar su la casa, «una casetta da Biancaneve». Lui lavora due anni in un’azienda ma l’ambiente non gli va, lo trova triviale: «I miei parlavano di valori, erano gente di fede, fede vera nell’amore. Io? Sì, credo. Ma in Dio, la mia non è una fede bigotta».


 E’ dei primi Settanta l’incontro con Gigi Rock, di Vittorio Veneto. Con la sua band ci sta un paio d’anni. Facevano rock’n’roll e altro. Il battesimo col sax tenore, che resterà poi la passione della vita, avviene lì. Gigi Rock continua a cantare, Roberto De Marchi era al piano e poi fa un gruppo nuovo, Michele Santoro diventerà chitarrista di Gianni Morandi, e poi ancora Ruggero Bertelle e Nello Da Pont batterista. «Si provava da Nello a Formegan di Santa Giustina», ricorda Pasquale, «si andava in trasferta alla Lanterna Verde di Fiera di Primiero o ai Tre Casoni di Bibione. Nello andava a scuola da Enrico Lucchini, batterista grandissimo. Sempre jazz».


 E’ Nello («Ci chiamavano fratelli») che lo sradica e se lo porta a Milano. Lui andava a scuola da Lucchini. «Si dormiva in roulotte dietro il Capolinea», verso Pavia, oltre i Navigli. E’ la roulotte delle jam session, e arrivavano i vigili. «Avevo qualcosa da dire, volevo dirlo, sapevo che lo avevo. Mi sono messo in gioco totalmente, senza limiti. Ho sentito la voce dell’essenza».


 Milano? Tutta un’altra cosa, adesso. «Lì adesso ci sono solo posti per i vip, da 50 euro in su. Non esistono più i locali per persone vere». Vere per Chiesura è sinonimo di autentiche. Cosa resta? «Restava solo NordEst Caffè, vicino al BlueNote. Le ultime suonate le ho fatte lì, nel 2004». Jam session con Luigi Bonafede, Arnett Cobb, Mc Tyner, Gerry Mulligan, Lee Konetz, cantanti come Celeste Johnson e Down Mitchell. Lì arrivava gente del panorama mondiale. E c’era sempre chi veniva apposta per sentirli. «Ora Milano è cambiata. Un disastro, è piatta, non c’è più musica, una cagata per turisti. La cultura si è fatta superficiale, i giovani vanno alle sagre a Erba o Busto Arsizio, le case discografiche non producono più. Hanno preso il sopravvento le convenzioni e i soldi. Si fugge, invece di pensare, di approfondire. Anche in Tv, vogliono qualcuno di simpatico, uno che faccia ridere e basta. Musica leggera, magari Gaber Celentano e Jannacci».


 Disamorato di Milano che non è più quella dei Navigli di trent’anni fa, Pasquale Chiesura, «simpatico ma strambo», forse troppo per i tempi moderni, ha preso il suo sassofono sottobraccio e senza pentimenti se n’è ritornato. Cos’è per lui il sax? «E’ la mia anima, che non so esprimere con le parole. Col sax parlo a tutti, con le parole solo a chi mi capisce. E’ un simbolo del progresso, un sax di frassen non si suona mica».


 Chi gli rimane nella memoria, che lo abbia illuminato, che gli abbia indicato la via? «Il famoso maestro Basilio dell’Alpago». Chi era? «Non lo so più. Forse era di Irrighe. E’ morto, ma certi vecchi di oggi sono più pieni di vita di tanti altri, sanno di grave, giaròi, funiscol, per dire roba naturale. Poi mi resta nel cuore un tale Bez, incontrato sotto la naia, lo spartito l’ho capito da lui, l’ho quasi baciato per questo. Mi avevano sempre detto che non capivo, colpa della maestra che mi ha fatto credere di essere negato in matematica. E Luigi Bonafede. Al mio funerale chiamo lui, soltanto lui, nessun altro sa suonare così. Voglio un gospel sulla cassa: che gli altri abbiano da suonare, e io, nella cassa, da piangere».

Riproduzione riservata © Corriere delle Alpi