Caccia all’alba nell’ultimo roccolo
Così funziona la cattura degli uccelli di passo, una sapienza che si sta perdendo

Piomba il falco sui faggi con un sibilo d’ali, ed è come un sasso in un pollaio. Gli uccelli schizzano in un frullio, cercando la via di scampo più vicina e più bassa. Ma quello non è un falco, e le vie di fuga non sono sicure. Sasselli, cesene, bottacci, e pettirossi e lugherini e merli finiscono dritti a sbattere sulla rete. Resta poi solo da armarsi di pazienza per districarli. Così è il roccolo: una trappola per tordi. Quel falco è in realtà uno spauracchio, lanciato dal roccolista nascosto nel casello. E’ un bastone eccentrico, fende l’aria in volo disordinato come un rapace. Lo chiamano «zesta», sarà perchè è fatto di «revisòi», vimini, liane a cerchio attorno al bastone.
La giornata di Gelindo Calcinoni al roccolo di Zelant incomincia ancor prima dell’alba. E’ venuto su da Trichiana con la macchina carica di gabbie e richiami, attrezzi e reti. «Una volta», spiega, «la rete era fissa. La si lasciava lì per tutta la stagione, oggi non più. Sicché bisogna metterla e toglierla ogni giorno». Una volta si impiegavano due ore per sistemarla e una per levarla. Ma Gelindo ha inventato un suo sistema ingegnoso fatto di anelli a scorrimento: «In dieci minuti si leva tutto».
Il roccolo di Zelant è l’unico superstite delle centinaia di roccoli un tempo in attività, oggi quasi tutti in rovina (c’è però un progetto di recupero a cura della Provincia). La Valbelluna ne era costellata, uno ogni due chilometri in media. La tecnica è sapienza difficile che viene da lontano, che si tramanda di padre in figlio. Occorre viverla, la campagna, per avere un roccolo nel cuore. Era questione di contadini. Il roccolo era di proprietà del padrone, e gli uccelli catturati spettavano per il 48 per cento al colono, per il 52 (la parte migliore) al «paròn». Che controllava occhiutamente attraverso il castaldo, che spesso piombava a sorpresa, lui sì come un falco, dentro la cucina a controllare cosa bolliva in pentola. Quei tempi (per fortuna) oggi sono ricordo, ma anche i roccoli sono spariti uno dopo l’altro, e non per colpa di leggi e divieti.
E’ un mondo che è scomparso. Oggi è archeologia contadina, o venatoria. E’ un sapere che si sta perdendo, generazione dopo generazione. Sapere complicato, occorre intendersi di tecniche costruttive, di quali alberi piantare e in quali posizioni, di come addestrare gli uccelli da richiamo, come sistemare le reti, come lanciare la «zesta», quando passeranno gli uccelli, che tempo farà. E anche come potare e tagliare, come mantenere il roccolo, che, basta vederlo, è una specie di cattedrale vegetale che avrà 80-100 anni.
Una volta si registrava numero e tipo di catture ma anche le temperature, il vento, il tempo. Il roccolo funziona con gli uccelli di passo, alcuni in stormo altri in volo solitario. Gli uccelli in gabbia servono da richiamo, e ciascuno richiama i suoi uguali, sicché occorre pure sapere quali uccelli passano. Poiché gli uccelli cantano a primavera, li si inganna facendo loro credere che è la stagione giusta anche se è autunno. Per farlo li si tiene al buio per tre mesi (da San Marco al 10 agosto), poi si inizia a tirarli fuori, a dare luce - ma non battente - per un’ora al giorno, e ci vuole una settimana per arrivare alla luce piena, e un altro mese all’aria, dentro la stanza e poi fuori: per loro sono le giornate che si allungano, è la primavera che arriva. E incominciano a cantare. E’ il loro canto «primaverile» che attira gli uccelli di passo.
Il roccolo funziona da ottobre a dicembre. E’ fatto di un cerchio esterno di carpini bianchi e al centro di un grumo di faggi (talvolta un noce, un paio di ciliegi, un castagno, un corniolo). Un boschetto sul quale si posano gli uccelli. Nel «muro» esterno di carpini vengono lasciati dei corridoi liberi, buchi attraverso i quali gli uccelli possono scappare. Ma su quei buchi è tesa la rete, invisibile. Si chiama tremaglio, perché è fatta di tre maglie (due rombi grandi e la maglia fine in mezzo): quando l’uccello finisce contro la rete, resta impigliato in una sacca.
Ci fu un tempo in cui la famiglia contadina viveva di prodotti della terra e del cielo: verdure, formaggio, patate, funghi, lumache, gamberi. E di caccia piccola (quella grossa era riservata al padrone). La tecnica del roccolo è un metodo di caccia non selettivo: nella rete ci finiscono tutti. Una volta andava bene, «polenta e osei» era un piatto sostanzioso e prelibato, bisognava però sapere come ucciderli (con una pressione del pollice sul cuore) e poi come metterli in pentola. Oggi la caccia col roccolo è proibita: accontentarsi di «polenta e osei scampài».
Il roccolo di Zelant, spiega Franco De Bon della polizia ambientale della Provincia, è autorizato, ma serve solo per la cattura di richiami per i cacciatori, che con essi cacceranno poi altri uccelli ma con fucili a pallini (è cioè una caccia selettiva). Gelindo Calcinoni in mezz’ora ha catturato una ventina di uccelli. Alcuni li ha rilasciati perchè non rientravano nelle quote prenotate e autorizzate. Agli altri ha applicato un anello alla zampetta, e il numero è stato iscritto in un elenco. Su un secondo registro si riportano i nomi dei cacciatori ai quali verranno venduti i richiami, in modo da poter controllare che qualche cacciatore non faccia il furbo con richiami fuori regola.
Gelindo ha incominciato a 16 anni. Ha imparato dal padre, e il padre dal nonno. Lui ha insegnato ai figli, Roberto e Marco, entrambi laureati ma che non hanno tradito la terra e la sua cultura, sanno lavorare di cervello e di mani. Adesso è in pensione ma non ha avuto vita facile Partito dalla terra è entrato nella fabbrica, turni di notte alla Ceramica per guadagnare un terzo in più ma anche per avere tempo libero di giorno. Fatica, radici e passione. Adesso è il custode di una lunga storia.
La tradizione della caccia con il roccolo: raccontate i vostri ricordi, dite la vostra opinione
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