Bergomi, un campione rimasto con i piedi sempre per terra

AGORDO. «Quando vinci i Mondiali a 18 anni puoi rischiare di perdere la testa; io sono rimasto con i piedi per terra perché la mia famiglia mi è sempre stata vicina».

Beppe Bergomi, lo “zio”, è un’icona del calcio. Giovedì in una sala “don Tamis” gremita di tifosi interisti, di bambini e di appassionati di calcio, assieme all’amico psicologo dello sport, Samuele Robbioni, ha messo a fuoco alcuni degli elementi fondamentali della sua carriera. Quelli che Andrea Vitali ha scritto nel libro “Bella Zio”, il romanzo di formazione del vecchio capitano dell’Inter.

«In tanti mi avevano chiesto di scrivere un libro», ha detto Bergomi, dopo aver ricordato Giacinto Facchetti, “esempio positivo di cui nel nostro mondo abbiamo bisogno”, a cui l’Inter Club Agordino è intitolato, «ma non mi aveva mai interessato. Poi l’incontro con Vitali che mi ha detto che avremmo scritto della mia vita solo fino a 18 anni». Cioè quando Bergomi diventa campione del mondo.

Ad Agordo ha raccontato alcuni particolari di quell’avventura, ma anche quelli che l’hanno preceduta, per esempio la nascita del soprannome “zio” ad opera di Giampiero Marini per i baffi che aveva già a 14 anni quando a un torneo gli chiesero la carta d’identità prima di dargli il premio per il miglior giovane.

«La storia di Beppe», ha detto Robbioni, «parla di educazione e l’educazione è una scelta. Anche Vialli mi ha detto che forse il talento è l’ultima delle cose che gli sono servite per diventare un campione. Non serve talento per arrivare in orario agli allenamenti». —

G.San.

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