Baita Peralba, da ricovero di lavoro a base alpinistica per i giovani

I lavori in corso su baita Peralba a Sappada
I lavori in corso su baita Peralba a Sappada
 
SAPPADA.
Era chiamata "baracca delle cave" e, nonostante la sua invidiabile posizione, sotto la Torre Peralba, a circa 2100 metri di altitudine, la sua menzione evocava solo duro lavoro. Situata lungo la strada che porta al rifugio Calvi, serviva da ricovero per gli operai che lavoravano alla vicina cava di marmo, quella da cui si estraeva il famoso "fior di pesco".  Oggi quella vecchia ma spaziosa baracca sta per essere completamente ristrutturata dalla sezione Cai di Sappada, che ha organizzato per domani (partenza ore 7.30) una giornata dedicata proprio alla sistemazione del manufatto, che poi sarà adibito a base d'appoggio per le attività dell'alpinismo giovanile. Essa costituirà comunque un documento storico e sociale, legato al capitolo, ormai quasi del tutto concluso in Cadore e dintorni, dell'attività estrattiva. Si tratta di una pagina importante, dal momento che cave e miniere hanno portato lavoro e con esso benessere ai nostri paesi nei secoli passati; ma rimane comunque la memoria di un'attività faticosissima, impensabile ai giorni nostri.  Fausto Del Fabbro, di Forni Avoltri, emigrato in Sud Africa, ha conosciuto bene quella baracca, avendoci lavorato giovanissimo nel 1954. Aveva appena 18 anni quando cominciò a lavorare, nel maggio 1954, per l'industria Marmi Vicentini, che aveva aperto una cava sotto il Monte Peralba a 2100 metri di altitudine. La squadra era composta da Piero di Canon, il capo cava, Geromio Ferrari, Renzo Del Fabbro (Taifil), Livio di Collina (Toch), lo zio Michele e Benito Benedetti da Cima Sappada. La ditta, oltre all'affitto, pagava un tanto al metro cubo di marmo estratto e doveva anche assumere operai sappadini. Inizialmente gli operai alloggiavano al rifugio Calvi e il lavoro durava al massimo quattro mesi all'anno, perché la neve lassù era precoce. L'anno successivo, nel 1955, fu allestita la baracca, consistente in un prefabbricato fatto arrivare da Brescia e portato fino alla cava con i cavalli di Ottavio Romanin. C'era anche una cuoca, Lina di Danders, cosicché si poteva contare sempre su un piatto caldo. Racconta Fausto: «Mi ricordo come calavamo i blocchi di marmo sulle slitte legate con le corde d'acciaio. La ditta mi pagava bene; mi dava anche l'indennità di alta montagna. Nel 1956 il consolato italiano del Sud Africa richiedeva minatori per le miniere d'oro del Transvaal e così emigrai dal Peralba alle miniere a centinaia di metri di profondità. Sono contento che verrà fatto un libro per lasciare ai giovani i ricordi delle fatiche di una volta».  E forse - aggiungiamo noi - sarà ancora più contento del fatto che il ricovero di tante sue fatiche giovanili è ritornato a nuova vita, pronto ad essere occasione di sport e divertimento, senza rinunciare alla memoria di com'eravamo 50 anni fa.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Riproduzione riservata © Corriere delle Alpi