Assalam: non siamo una moschea

Nel centro islamico di Ponte non c’è l’imam, i sermoni si recitano in italiano e si condanna il terrorismo

PONTE NELLE ALPI. In arabo solo le preghiere, i sermoni si fanno in italiano. «Perchè da noi chiunque è ben accetto. E poi abbiamo associati che non lo parlano l’arabo. Per spiegare chi siamo e per capire dove viviamo la lingua è imprescindibile e se chiudiamo le porte, se chi è fuori non sa cosa facciamo, non può esserci convivenza».

Fondata nel 2008 per offrire un punto d’incontro ai “fratelli musulmani” residenti nel Bellunese, l’associazione culturale islamica Assalam di Ponte nelle Alpi (una delle cinque registrate in provincia assieme a quelle di Feltre, Santa Giustina, Cesiomaggiore e Lentiai e che oggi vanta oltre 30 soci) era balzata agli onori della cronaca nazionale nel gennaio 2014, quando le indagini successive alla morte vicino ad Aleppo di Ismar Mesinovic svelarono come proprio il Centro pontalpino fosse frequentato dall’imbianchino bosniaco residente a Longarone e dall’altro foreign fighters partito dalle Dolomiti alla volta della Siria, Munifer Karamaleski, di Chies d’Alpago. Tanto era bastato per far comparire l’associazione Assalam sulla black list del ministero dell’Interno, tra i siti “attenzionati” dal Viminale nell’attività antiterrorismo. Due anni (e tanta diffidenza) dopo a Ponte quei due nomi sembrano banditi: «È un capitolo che riteniamo chiuso», tira una linea Mohamed Meraga, vicepresidente e portavoce dell’associazione islamica pontalpina. «Abbiamo chiarito tutto quello che andava chiarito con forze dell’ordine, autorità e comunità: il centro e i suoi soci non c’entrano nulla con quella vicenda, se qualcuno avesse saputo avrebbe sicuramente parlato, qui non nascondiamo niente e nessuno, la collaborazione con con prefettura e questura è reale».

Una ferita aperta, evidentemente, per un centro culturale che non si è mai tirato indietro nel condannare gli attentati. Non solo quelli di Parigi e Bruxelles. «La nostra posizione è stata sempre di forte condanna», avverte Assan Lambarki, presidente del Centro Assalam. «Siamo esseri umani, quelli sono atti semplicemente ingiustificabili e incomprensibili, atrocità che nulla hanno a che vedere con l’Islam che predichiamo noi: come si può giustificare la morte di innocenti, di donne e bambini con la religione? È solo follia. Noi viviamo e lavoriamo per la pace, per la convivenza: ci sentiamo parte di questa società, non si può non essere contro il terrorismo, contro il male».

Contro anche una terminologia non corretta. «Non siamo una moschea, a Ponte non ci sono nè minareti nè un imam fisso, perchè è una figura che richiede un sostegno economico: qui ci arrangiamo con i volontari, la crisi la sentiamo tutti», prosegue Mohamed Meraga. «Paghiamo 600 euro di affitto mensile a un privato, ci autofinanziamo, nessun oscuro contributo dall’estero. È vero che preghiamo, a volte siamo anche in tanti, ma restiamo un centro culturale che opera nel sociale».

Preghiere alle quali non è mai stato invitato (come al contrario successo a Pordenone) il bosniaco Bilal Bosnic, l’imam del terrore, che secondo gli inquirenti ha invece avuto contatti approfonditi con Mesinovic. «Qui nessuno conosce l’imam Bosnic e nessuno lo ha mai invitato».

(ma.ce.)

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