Archivio diffuso del Vajont: il primo passo è fatto

BELLUNO. I documenti del processo Vajont sono arrivati a Belluno dall'Aquila quattro anni fa, scortati da sei staffette della polizia stradale: erano ancora in copia unica, e danneggiarli avrebbe significato perdere la storia documentaria del disastro che il 9 ottobre 1963 distrusse Longarone. Oggi questo problema non si porrebbe più: perché da quando sono stati consegnati all'Archivio di Stato di Belluno, i 150 mila documenti prodotti nel corso del processo sono stati digitalizzati e in qualche mese dovrebbero essere accessibili al pubblico, in rete.
Per adesso, ci si accontenti di visitare la mostra nell'antica chiesa di Santa Maria dei Battuti: è aperta fino al 23 gennaio (lunedì e giovedì, dalle 8,15 alle 17,30) e contiene una selezione del materiale trasferito temporaneamente a Belluno dopo il terremoto dell'Aquila. Le foto aeree delle settimane successive al disastro, gli studi della Sade per costruire la diga più alta del mondo, le testimonianze.
La mostra è divisa in quattro sezioni: i progetti e la realizzazione della diga, le perizie tecniche, la frana, l'iter processuale. Si gironzola nella grande sala dell'Archivio di Stato e ci si imbatte in documenti di cui molti hanno sentito parlare, specie negli ultimi mesi: la lettera del 9 ottobre 1963 nella quale Alberico Biadene, direttore del Servizio Costruzioni Idrauliche della Sade, chiedeva preoccupato all'ingegnere Mario Pancini di tornare dalle vacanze negli Stati Uniti (“Che Iddio ce la mandi buona”, aggiunse in penna blu a lettera conclusa), l'ultimo telegramma dell'Enel-Sade alla prefettura di Udine, la rassicurante relazione Ghetti (“La quota di 700 msm può considerarsi di assoluta sicurezza”). E poi: gli appunti a matita del progettista Carlo Semenza, gli scambi epistolari con il vecchio geologo Giorgio Dal Piaz, le foto delle perizie successive al disastro, con Erto e Casso sullo sfondo.
La digitalizzazione dei documenti è stata curata da Silvia Miscellaneo. Ma è solo un primo passo: come ha ricordato i il sindaco di Longarone, Roberto Padrin, l'obiettivo è “creare un archivio diffuso del Vajont, che raccolga in un portale online tutti i materiali disponibili sulla tragedia di 50 anni fa”.
Gran parte dei 252 faldoni trasferiti a Belluno nel 2009 sono stati in realtà prodotti proprio a Belluno dal giudice istruttore Mario Fabbri, tra il 1963 e il 1968: poi il processo venne spostato in Abruzzo per legittima suspicione: si temevano disordini. «La digitalizzazione», ha sottolineato ieri Mauro Tosti Croce, della Direzione generale per gli Archivi, «vuole essere una sorta di risarcimento, seppur tardivo, per la ferita del processo strappato ai bellunesi». Una trentina di faldoni, quelli contenenti i documenti sulle vittime del Vajont, sono tuttora secretati e saranno resi pubblici solo tra vent'anni: “motivi di privacy”.
Il prossimo passo, per Irma Visalli, è far sì che il materiale dell'Archivio Vajont venga riconosciuto memoria del mondo e iscritto nel registro speciale dell'Unesco.
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