«Annie», partigiana a Lorenzago
Fu lei a esporre il primo tricolore in un Cadore appena liberato dai nazisti

Viene spontaneo associare alle eroiche donne del Cadore la figura di Antonietta De Donà, che tra il 1943 e il 1945, fu una delle più valide collaboratrici del Cln di Lorenzago, guidato da Mario De Michiel. Oggi Antonietta vive a Tai di Cadore, e nonostante l'età (95 anni il 20 luglio), ha ancora nitidi nella memoria ideali e sacrifici di quei mesi. «Sono figlia di Giovanni De Donà "Pitùs" e di Ilia Gerardini», ci racconta, «e mia madre morì quando avevo appena 6 anni. Tre anni dopo mio padre, trasferitosi a Udine, si risposò avendo dalla seconda moglie un'altra figlia».
Quando è iniziata la vostra militanza?
«Iniziai a collaborare, con alcuni patrioti di Lorenzago subito dopo l'8 settembre 1943, con quell'entusiasmo tutto giovanile che non lascia spazio al pensiero dei rischi e delle conseguenze a cui puoi andare incontro. Con altre colleghe aiutavo i soldati italiani sbandati che giungevano a Lorenzago, nascondendoli nei fienili attorno al paese, portando loro vestiti borghesi e cibo, evitando così che cadessero nelle mani dei tedeschi».
Chi erano i vostri compagni di lotta?
«Nel febbraio 1944 in paese si era creato un Cln grazie a Mario De Michiel "Viro", con Remo e Florindo Tremonti, Samuele De Lorenzo e Luigi De Battista, che faceva da staffetta. La mia famiglia aderì subito all'iniziativa: ci aggregammo io e i miei cugini Graziano e Carlino De Donà, quindi la zia Maria sorellastra di mio padre, che mi ospitava, assieme alla figlia Maddalena. Naturalmente su tutte le operazioni militari vigeva la massima riservatezza, ricordo che dell'aviolancio del Mauria del giugno 1944 venni a conoscenza dopo che si era verificato il combattimento coi nazisti. Vedo ancora i camion dei tedeschi ripassare indietro per Lorenzago con a bordo diversi dei loro feriti adagiati nei cassoni tutti sporchi di sangue». «Nel mese di settembre un battaglione della Brigata "Calvi" si stabilì in paese presso il castello di Mirabello. Così, assieme alla zia Maria e alla Maddalena, cucinavamo il cibo per gli uomini nel vecchio mulino dietro all'albergo Trieste, e poi con le gerle, assieme ad altre donne, lo portavamo in montagna».
Quali furono gli episodi più drammatici di quel periodo?
«Il 10 settembre arrivarono in paese i partigiani carnici guidati dal famoso comandante "Mirko", che riuscii solo ad intravedere. In quei drammatici frangenti, noi del Cln, aiutammo il maresciallo Paolich, comandante della gendarmeria, a nascondersi nei campi tra le canne di granturco, fornendogli dei vestiti borghesi, perché non fosse catturato dagli uomini di "Mirko" che lo avrebbero ucciso. Il maresciallo era una buona persona, che si adoperava spesso per il bene del nostro paese. Dopo la guerra tornò diverse volte e raccontò di aver ricevuto da spie la lista dei partigiani lorenzaghesi, ma di averla immediatamente bruciata». «Nel mese di ottobre la Brigata si sciolse e i miei compagni si rifugiarono in un nascondiglio in montagna. Io avevo il compito di segnalare i movimenti dei tedeschi: quando le colonne transitavano per il centro Cadore esponevo sul tetto di casa dei "Pitus" un grande lenzuolo bianco, ritirandolo a pericolo passato, naturalmente con grande rischio per me e la mia famiglia. Mi fu pure consegnata la bandiera della Brigata, che esposi il 1 maggio 1945 sul municipio. Il 30 novembre ci fu un grande rastrellamento e diversi partigiani furono arrestati. Io fui condotta in municipio e tra due soldati armati fui interrogata da un ufficiale. Di fronte alle accuse di essere una partigiana negai e fui tanto convincente che mi lasciarono andare. Per precauzione lasciai casa e col cugino Graziano mi nascosi in un fienile a "Ciasate", poi salimmo a Vedorcia fino all'arrivo della neve. L'inverno lo passai chiusa in casa, senza farmi vedere, nascondendomi in soffitta ogni volta che passavano di là i gendarmi tedeschi per controllare. C'era anche il mio futuro marito, conosciuto qualche tempo prima, Donato Serafini di Tai, anche lui partigiano, che poi sposai nel settembre 1945. Il 26 marzo 1945 ci fu un nuovo rastrellamento e il mio nome figurava in cima alla lista dei ricercati, tanto che dovetti fuggire nuovamente».
Quando arrivò la liberazione?
«Finalmente il primo maggio, sotto una pioggia dirotta, arrivò mio cugino Graziano, che con un bel fazzoletto rosso al collo e l'ombrello chiuso ci annunciò fradicio di pioggia, che la guerra era finita. Tornai in paese e lo trovai pieno di gente che festeggiava, in gran parte persone che non avevano mai avuto niente a che fare con la resistenza: passato il pericolo tutti erano diventati partigiani. Mentre il generale tedesco Kohlerman e Mario De Michiel si recavano a Pieve per firmare la resa, salii di corsa le scale del campanile e con grande gioia issai una bella bandiera italiana per la riacquistata libertà». Per i tanti rischi, pericoli, paure di quei "giorni veri", Antonietta, "Annie", al pari di tante donne impegnate nella resistenza, dalla Patria non ha mai ricevuto un ringraziamento. Almeno da noi giunga oggi un grazie a questa donna che sembra davvero uscita da una copertina della Domenica del Corriere del novembre 1918.
Walter Musizza e Giovanni De Donà
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