Albino Luciani, un papa moderno «Dovere dell’accoglienza ma con la testa»

l’intervista
Nel 1978 Albino Luciani diventava papa, lo rimaneva per 33 giorni e poi moriva. Secondo alcuni non lo avrebbero ucciso il 28 settembre, ma dopo, dimenticandolo, dimenticandone le opere, le parole, gli scritti.
Nel 2018, quarant’anni dopo, i temi su cui la società dibatte sono ancora in parte gli stessi. Impossibile e sbagliato sentenziare quello che Luciani avrebbe detto oggi al riguardo. Possibile e interessante ricordare quello che diceva allora o anche prima.
Lo abbiamo fatto con Loris Serafini dall’ufficio della Fondazione, da dove si vede la strada che da Canale conduce a valle.
Quella che ha percorso anche Luciani portando nel mondo un pensiero che nel suo paese natale ha il fondamento. Emigrazione, dialogo e scontro interreligioso sono oggi temi caldi: partiamo da qui.
«Di fronte alla paura di alcuni vescovi sulla possibilità che buddisti o musulmani venissero a convertirci, nel 1965 disse che i musulmani avevano il diritto di costruire la loro moschea. Aggiungeva che se si vuole che i nostri figli non si facciano buddisti o musulmani occorre fare meglio il catechismo affinché sentano la loro religione ben radicata nell’anima. “Proclamando la libertà religiosa, che è giusta – diceva Luciani – possiamo avere anche noi più libertà negli altri Stati”».
Spesso oggi ci sono uomini e partiti politici che brandiscono i simboli del cristianesimo anche durante le campagne elettorali.
«Credo che oggi in Italia siamo molto cattolici, ma quasi per nulla cristiani. Significa che si aderisce a una dottrina formale, ma non si vive assolutamente il messaggio di Cristo: così ciò che si fa o si dice non vale nulla rispetto alla fede. Per Luciani il cristianesimo era testimonianza personale di vita».
Non abbiamo parlato di emigrazione.
«Penso che la posizione di Luciani sarebbe stata quella evangelica: il dovere dell’accoglienza, ma con testa. Bisogna accogliere, ma pensare contemporaneamente a un progetto di integrazione. I genitori di Luciani erano stati emigranti. Credo che, come in altre occasioni, avrebbe cercato l’equilibrio confrontandosi con il Vangelo col buon senso, senza sottrarsi alle responsabilità».
È l’uomo fatto per il sabato o il sabato per l’uomo? In alcuni casi pare di essere tornati a scenari lavorativi ottocenteschi: sfruttamento, mancanza di sicurezza...
«Il padre aveva iniziato a 11 anni a fare il manovale, sulle impalcature a Innsbruck. La madre aveva lavorato tra la Svizzera e Venezia. Da patriarca di Venezia, Luciani aveva affrontato tutti i problemi di Porto Marghera. Quindi il problema dei lavoratori lo aveva a cuore. Chiedeva che i lavoratori fossero protetti nei loro diritti: paga giusta, condizioni umane, rispetto da parte dei datori di lavoro. Ma al contempo si opponeva agli scioperi con pretese al di fuori della realtà. Era, insomma, per una mediazione tra datori e operai. Ai primi ricordava che dovevano garantire condizioni giuste ai dipendenti, ai secondi che l’imprenditore, quello buono ovviamente, metteva a rischio la sua proprietà e quindi era anche per il suo coraggio se loro avevano un lavoro. Comunque avrebbe difeso le conquiste sociali che già 40 anni fa erano state fatte».
Luciani aprì alla contraccezione, poi si uniformò ai dettami del papa. E sulle coppie di fatto che pensava?
«Aveva una posizione molto più aperta di quella di altri vescovi. Lui partiva da una totale contrarietà al divorzio. Tuttavia non ignorava che all’interno delle famiglie ci potessero essere casi dolorosi. Ecco che, anche per evitare il divorzio, invitava a una riflessione sul riconoscimento per legge delle unioni di fatto, in modo da, per esempio, “migliorare la situazione dei figli nati fuori del matrimonio” o “regolare alcuni interessi patrimoniali”. Insomma direi che aveva una posizione per certi aspetti all’avanguardia. Sulla limitazione delle nascite aveva espresso il suo pensiero. Ma, come in altre occasioni (vedi lo scioglimento della Fuci), se riteneva legittimo che all’interno del mondo cattolico ci potessero essere idee diverse, era altrettanto convinto che alla fine si dovesse seguire quella che era la posizione dei vescovi e del papa. Il diritto di essere in disaccordo era sacrosanto, ma al contempo lo era la salvaguardia dell’unità della Chiesa. Può darsi che, da papa, senza disconoscere l’Humanae Vitae di Paolo VI, avrebbe tuttavia cambiato qualcosa. Un po’ come fa papa Francesco che non cancella quello che hanno fatto o detto i suoi predecessori, ma intanto apre nuove strade».
Prima abbiamo parlato del lavoro. Ma c’è anche l’aspetto della finanza.
«Dalla famiglia e in particolare dal papà, che era un simpatizzante socialista con un forte senso di rettitudine, aveva ereditato la tensione verso l’onestà e la trasparenza. Caratteristiche che voleva fossero anche della Chiesa. Dove ha trovato situazioni torbide, è intervenuto con severità, ritenendo che chi aveva sbagliato avesse sì il diritto alla misericordia, ma dovesse affrontare tutte le conseguenze legali. Con il capitalismo - come pure con la deriva atea del comunismo - è stato molto duro. Ci sono passaggi interessanti in cui parla della proprietà privata e dice che laddove ci sono possedimenti privati che recano danno considerevole agli interessi del paese perché troppo estesi, perché poco o nulla sfruttati dai padroni, perché recano miseria alla popolazione, il bene comune ne giustifica l’espropriazione. Non era tenero nemmeno con chi ricava redditi abbondanti dall’attività nazionale e poi li trasferisce all’estero infliggendo un torto alla patria. Diceva che tale “ingiustificata evasione di capitali non è ammissibile”».
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