Ecco dove nasce il sake italiano, la sfida (già vinta) di Nicola Coppe: un pezzo di Giappone tra le Dolomiti
Nicola Coppe ha fondato la prima sakagura italiana: una cantina artigianale dove si produce sake con riso Carnaroli e acqua delle Dolomiti. Una storia che parla di fermentazioni, passione e cultura giapponese reinterpretata nel cuore delle Alpi

Nel cuore delle Dolomiti bellunesi, dove le vette sembrano scolpite nel silenzio e i boschi custodiscono antiche memorie alpine, accade qualcosa di assolutamente inedito.
A Feltre si produce il primo sake italiano, frutto della visione tenace di Nicola Coppe, microbiologo, birraio e ora anche toji, il mastro di sake.
La storia del sake italiano
«Siamo nella prima e unica sakagura in Italia, in Europa ce ne sono 15 in tutto» racconta Nicola, accogliendo i visitatori all’interno del suo laboratorio “Riso Sake”, «ed è anche il luogo dove è nato tutto: la produzione di sake e, accanto, una piccola izakaya, ristorante osteria giapponese. L’abbiamo aperta perché… beh, qui nessuno ci conosceva. Nessuno è profeta in patria».
Eppure, la patria, Nicola Coppe, classe 1991, non l’ha mai lasciata davvero. Anzi, l’ha fatta parlare una lingua nuova. Al centro del suo progetto c’è il riso Carnaroli, una delle eccellenze italiane, che finora aveva un’unica via commerciale: il risotto.
«Ci sono tantissime famiglie che coltivano riso in Italia, e stanno in piedi perché noi mangiamo risotti. È assurdo. Il sake è un’altra via commerciale che ci permette di valorizzarlo, di nobilitarlo, e anche di consumarne molto», spiega con convinzione.
Fermentazioni
La vocazione per le fermentazioni di Nicola nasce da lontano. «Mi occupo di birra da 15-16 anni, soprattutto birre acide, fermentazioni spontanee. Poi, a un certo punto, il sake è arrivato come una sfida: una nuova fermentazione, un altro linguaggio. E non ho più smesso».
Il sake di Nicola Coppe è prodotto in piccole quantità — tra 5.000 e 7.000 bottiglie all’anno — ed è profondamente artigianale. Nessun alcol aggiunto, nessuna scorciatoia tecnologica.

«Molti pensano che il sake sia un distillato servito caldo. In realtà è un fermentato di cereali, con una gradazione alcolica simile a quella del vino. Noi usiamo solo quattro ingredienti: riso, lievito, acqua, e un ingrediente magico, il koji — una muffa nobile che trasforma l’amido in zucchero. È lui che dà inizio a tutto».
Ma non è un processo semplice. «Ogni produzione è una sfida. Alla fine di ogni ciclo ci guardiamo e ci chiediamo: “Ma chi ce l’ha fatto fare?” Perché ci sono notti in cui dobbiamo dormire praticamente assieme al sake, per monitorare lo sviluppo del micelio. È un lavoro viscerale. Io mi definisco uno schiavo del riso: detta lui i tempi delle mie giornate, delle mie settimane.”
Il sake perfetto
Eppure, c’è una bellezza in questa fatica. «Probabilmente è proprio questo che mi tiene legato. Non sono ancora arrivato a fare un sake perfetto, quello che mi fa dire ‘ok, mi posso fermare’. E forse è giusto così.»

Con l’apertura della izakaya, una piccola osteria giapponese nel cuore di Feltre, Nicola Coppe e il suo team hanno trovato anche un modo per far conoscere il sake a un pubblico italiano.
«Ci serviva un contatto diretto con le persone. Non basta far assaggiare il prodotto: bisogna raccontarlo, spiegare cosa c’è nel bicchiere, come si fa col vino naturale o con la birra artigianale. È una forma di educazione».
Un ponte tra due tradizioni che sembravano lontane, ma che in realtà condividono molto.
Il sake italiano come il sake giapponese: la sfida
«L’Italia è il Paese europeo che coltiva più riso in assoluto, oltre il 50% del totale. Abbiamo un microclima che somiglia a quello del Giappone. Siamo, per vocazione e geografia, il luogo ideale per produrre sake in Europa».
A guardarlo nel suo laboratorio, tra vasche di fermentazione e risaie immaginate, Nicola Coppe sembra davvero un uomo in equilibrio tra due mondi.
E la sua è una rivoluzione pacata ma determinata, che passa dal riso, all’acqua dolomitica e da un lavoro artigiano che non si accontenta mai.
Perché “il sake perfetto”, dice, «forse non arriverà mai. Ma il viaggio per cercarlo è già bellissimo»
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