Onescu tra campo e problemi giudiziari. «Sono un uomo libero, quindi posso giocare»

Il centrocampista di Sedico ha fatto ricorso contro la sentenza per stupro di gruppo e sarebbe vicino al Cavarzano
Gianluca de Rosa
Daniel Onescu
Daniel Onescu

Daniel Onescu è pronto a voltare pagina. Chiusa in maniera turbolenta la parentesi Dolomiti Bellunesi e con la spada di Damocle della giustizia ancora pendente sulla testa, il centrocampista di Sedico classe 1993 non vede l’ora di rimettersi in gioco.

Voci sempre più insistenti parlano di una trattativa molto ben avviata con il Cavarzano di Eccellenza, ma mancano ancora i crismi dell’ufficialità e il mediano non si espone su quanto sta dicendo Radio Mercato.

«Innanzi tutto parliamo di calcio, che è meglio», esorta Onescu, ragazzo dalle spalle larghe e dalla grande esperienza calcistica. Oltre dieci anni in giro per l’Italia calcando i campi della serie C in cui ha collezionato oltre quattrocento presenze prima del ritorno a casa, che nella sua testa doveva avere tutt’altro sapore.

Una carriera per ora interrotta dall’accusa di stupro di gruppo, riferita al periodo in cui giocava con la Virtus Verona e di cui hanno parlato anche tutti i media nazionali. È un’onta da cancellare, ma con cui convivere almeno fino a quando non si chiuderà il procedimento che lo vede imputato.

«Ma a quella ci sta pensando la giustizia» incalza il centrocampista, «ci sono gli avvocati, stanno facendo il loro lavoro. Ognuno qui dovrebbe fare il suo lavoro. Se gli avvocati pensano alle questioni giudiziarie, allenatori e direttori sportivi dovrebbero pensare solo al campo e non a quello che succede fuori dal campo».

Riferimento, neanche troppo casuale, all’addio burrascoso alla Dolomiti Bellunesi.

Come sono andate le cose?

«Qualcuno ha voluto giocare sulla mia pelle. Le accuse a mio carico sono state una scusa. Forse costavo troppo ed i risultati in quel momento non erano in linea con le aspettative. Probabilmente volevano risparmiare sul mio contratto, ma hanno scelto la strada peggiore per raggiungere l’obiettivo. Gioco a calcio da tanti anni, quindi ne ho viste di cose. Avrei capito il momento. Mi sarebbe bastato che qualcuno mi avesse preso da parte per dirmi “Daniel, dobbiamo rescindere”. Non mi sarei opposto. A ferirmi sono state le modalità. Nessuna parola in faccia, da quando è uscita la condanna, che ci tengo a sottolineare è di primo grado. Sono spariti tutti. Ero in un momento di difficoltà, mi sarei aspettato almeno una parola. Invece ogni tipo di rapporto da quel momento è andato avanti solo tramite avvocati».

Qualcuno però, a quanto pare, una mano l’ha tesa, proprio in questi giorni.

«Mi ha fatto molto piacere ricevere una chiamata da parte di un direttore sportivo. I dirigenti devono parlare di calcio, è quello il loro lavoro. Il resto lasciamolo ad altri. Poi ci sono i pseudo dirigenti che, non sapendo forse fare bene il proprio lavoro, preferiscono parlare anche di altro. Ho fatto una prima chiacchierata, ne seguiranno altre. Parlerò anche con l’allenatore poi scioglieremo insieme le riserve. Io non vedo l’ora di poter tornare in campo».

Al netto di quest’ultima vicenda, come giudica la sua esperienza alla Dolomiti Bellunesi?

«Era la mia prima scelta, la più giusta da fare. Volevo tornare a giocare a casa una volta conclusa la lunga parentesi professionistica. Non ho preso in considerazione altre ipotesi, prediligendo quella sentimentale. I risultati quest’anno non sono stati in linea con i programmi forse. C’erano grandi aspettative dopo i 50 punti della stagione precedente, ma quest’estate sono stati cambiati venti giocatori. Qualcosa è andato storto. Quello della Dolomiti Bellunesi doveva essere un progetto a salire ed invece è finito per essere un progetto da salvare. Un progetto serio, non c’è dubbio, ma alla fine ha prevalso un po’ di confusione nella gestione tecnica. Cambiare allenatore dopo quattro giornate non ha giovato, ad esempio. Allontanare Brando è stato un errore, e parla chi con Brando quest’anno nelle prime giornate praticamente non aveva mai visto il campo. Avrò collezionato si e no cinquanta minuti di gioco».

Inevitabile un richiamo alla ormai nota vicenda giudiziaria che l’ha chiamata in causa: quanto pesa l’accusa di stupro dentro e fuori dal campo?

«Ho tanti ex compagni ed altrettanti amici che in questo periodo mi hanno sempre dimostrato solidarietà e vicinanza. Sono felice di aver lasciato un buon ricordo, anche tra i tifosi, in tutte le squadre dove ho giocato. Da Nord a Sud, senza alcuna distinzione. L’etichetta non mi pesa, almeno a me. Pesa il giudizio della gente agli occhi della mia famiglia, ma anche qui nel Bellunese ho ricevuto tanti attestati di stima. Il percorso giudiziario è ancora lungo. La condanna è di primo grado, c’è stato il ricorso ed ora si passerà al secondo grado. Se dovesse servire andremo anche in appello. I conti si fanno alla fine, nel frattempo sono un uomo libero. Soprattutto, sono libero di poter giocare a calcio, che è il mio lavoro ed è quello che so fare meglio. Anche in questo caso la giustizia sportiva ha parlato chiaro. Le questioni personali, per quanto difficili, dovrebbero restare sempre fuori dalla sfera professionale. Ognuno deve fare il suo: voglio essere giudicato se gioco bene o male. Un avvocato deve pensare ai tribunali, un direttore sportivo o un allenatore a raggiungere i migliori risultati. Qui si sono invece mischiati i ruoli».

Riproduzione riservata © Corriere delle Alpi